Tra Ubuntu e Teranga
Dakar, Maggio 2019
A Maggio ho dovuto prendere una pausa dal Senegal per poter rientrare in Italia a fare un periodo di formazione di metà Servizio prevista dal progetto.
Questo mio rientro, in realtà, è servito, anche involontariamente, a farmi percepire i primi effetti che questa esperienza sta avendo sulla mia persona; ciò che ho constatato è la persistenza di un tema che in questo periodo è sempre più centrale e continua ad essere un chiodo fisso nella mia mente, ovunque io sia: l’indifferenza.
Credo che uno dei motivi che mi abbia spinto a partire per il Senegal sia proprio la volontà di non essere indifferente: non volevo esserlo ad alcune dinamiche specifiche, come la migrazione, ma con il passare del tempo e guardandomi dentro ho pensato che la non-indifferenza, quindi il prendersi cura, sia proprio uno stile di vita, una forma mentis, un approccio al mondo che dovrebbe essere coltivato e tutelato in ogni essere umano.
Oggi più che mai il mondo ci richiede di non essere indifferenti, ce lo sta urlando a squarciagola: ogni persona che soffre in questo pianeta, ogni vittima di ingiustizia, ogni morte innaturale sono una forma di concretizzazione di indifferenza.
L’indifferenza, a mio avviso, va sempre a braccetto con la complicità. Si è ingenui se si pensa che girandosi dall’altra parte non si generino delle conseguenze: anche il non-agire è un’azione ed una scelta. Stiamo distruggendo tutto ciò che ci è stato dato per natura, a partire dall’ambiente fino ai sentimenti di fratellanza e solidarietà che sono propri dell’essere umano più primitivo.
Quello che sento e che leggo giorno dopo giorno sono solo grida di odio, di paura che producono solo un grande terrorismo psicologico di massa, un’ipnosi negativa che vuole intrappolarci nel vortice dell’iper-diffidenza, dell’iper-sospetto e dell’iper-individualismo. Abbiamo tanta paura del terrorismo fatto di armi materiali (che noi stessi produciamo..), ma non ne abbiamo paura quando questo si manifesta in questa altra forma più sottile e più teorica, che comunque crea vittime? Non temiamo il far parte di una società che manipola e distrugge l’indole umana più semplice e pura?
Trovo che coloro che sono indifferenti e complici, coloro che tirano un sospiro di sollievo all’idea che il mondo sia diviso in compartimenti stagni, di fatto, siano solo persone deboli la cui mente è stata plasmata dai tiranni contemporanei e siano stati illusi di ricavare un vero guadagno dall’individualismo. Ma come si può davvero avere paura di pensare ad un mondo aperto, che viva in uguaglianza e solidarietà? Come siamo arrivati a pensare che questo sia solo perbenismo o addirittura naif? Ad avere paura delle cose belle e a combattere per le cose peggiori?
L’evoluzione economica, tecnologica, materiale del mondo occidentale è stata direttamente proporzionale alla sua retrocessione spirituale, etica e morale a quanto pare. A me non interessa poter andare sulla Luna se a continenti interi viene impedito di muoversi liberamente e per qualsivoglia ragione.
Fintanto che alcune folle continueranno a pendere dalle bocche dell’odio, potrebbe sembrare che non ci sia speranza per un cambiamento. Ma è proprio qui che diventa centrale il ruolo di coloro che “si prendono cura”: non dobbiamo farci scoraggiare da questo clima di apatia (se non cattiveria) dilagante, ma guardarci intorno e ricordarci che se ci contiamo, siamo di più noi.
Non smettiamo mai di aggregarci, di avere un approccio positivo alla vita, di darci una mano l’un l’altro e di avere cura della comunità mondiale in cui viviamo. Ancora una volta: non dobbiamo smettere di praticare l’ubuntu.
Francesca Conti
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